Attraversamenti verticali
di Cristina Bove
- Il Foglio Letterario ed. -
Attraversamenti
verticali dell'universo per scandagliarlo nelle sue infinite possibilità di
enigmi e misteri, con la speranza di coglierne qualche minimo barbaglio?
Oppure, più semplicemente, ricerca
accurata, a partire dalla propria esperienza, del significato dell'esistenza
umana, di cui poter cogliere almeno i tratti essenziali?
In un caso e nell'altro, la ricerca
della Bove non si presenta affatto come esercizio mentale semplice e non
approda (non sarebbe possibile!) a risultati definitivi. Questa consapevolezza
è così forte e profonda che passa nelle poesie sotto forma di struggimento, di melanconia, di
incompiutezza, di quasi rassegnazione, a volte. Ma con il sottile intendimento
di “tornare alla carica” prendendo vie nuove, cercando di scavare più a fondo,
per giungere al momento in cui le cose, le parole, gli uomini e le loro
caratteristiche essenziali hanno origine, come per poterne poi seguire passo passo l'evoluzione e comprendere così il perché di ogni
cosa, di ogni fatto, di ogni comportamento. Ricerca filosofico-poetica
a tutto tondo, insomma.
L'evidenza è però sempre velata da
qualcosa che non permette di comprendere per intero, c'è sempre uno scarto tra
quel che appare e quel che è. E ciò è tanto più vero, quanto più l'oggetto
della ricerca poetica di Cristina è rivolta alla psiche umana, alle emozioni
che danno vita ai sentimenti, talvolta così imprevedibili, talaltra così
contradditori, oppure del tutto inspiegabili sotto il profilo logico, eppure
così reali e profondi da costituire l'unica possibilità di esistenza per chi li
vive.
Trattandosi della terza silloge poetica
di Cristina, le considerazioni fin qui svolte possono ritenersi più che
plausibili, in quanto, proprio con questa nuova raccolta, la Bove dimostra di stare
costantemente in allerta, sul filo della continuità della sua ricerca, ma ora con nuove modalità espressive, con nuovi
strumenti di indagine che le permettano un'analisi sempre più fine, sempre più
approfondita.
Analizzando più da vicino le singole
poesie, cominciamo a trovare una conferma di quanto sopra accennato, già a partire dalla bellissima Attraversamenti
verticali, a cui fa da contrappunto Impermanenza.
Nella prima, viene utilizzata
un'efficacissima metafora tratta dalla scultura, (altra arte in cui Cristina
eccelle), per parlare del corpo come “modello a cera persa”, contenuto in un
incavo (il calco) da cui ricavare l'impronta: ma è difficile estrarre la vera
forma (come dire, l'essenza) dell'essere umano che, quanto più si sente in qualche modo minacciato
nella propria interiorità, tanto più la difende contraendosi sempre più fino a
mostrare solo la punta della fiamma (della propria vita, la parte più
superficiale), attraverso la luce degli occhi. Ma è un lampo, un istante, e poi
si ritorna a nascondere il proprio nucleo, il centro della propria anima, o
così sembra agli altri, che non osano palesare nemmeno a se stessi l'incapacità
di cogliere la vera essenza umana. E se qualcuno volesse credere d'aver
compreso nel profondo l'altro da sé, sappia che di sola immagine riflessa (lune dipinte…) si tratta, sembra voler
dire la poeta con gli ultimi tre versi, mentre
continua a sentire la propria unicità, fluttuando
lenta nell'ondeggiare delle poseidonie, incurante
(e quasi compiaciuta) di non mostrare agli altri in modo completo il proprio
vero sé. Qui si potrebbe forse anche intercalare un'interpretazione che mette
in evidenza una sorta di inevitabilità: attingendo alla psicologia di Joe Luft e Harry Ingham, entriamo
metaforicamente in uno dei quadranti della finestra detta di Johari (dalle iniziali dei loro nomi) e scopriamo che c'è
una parte di noi che anche volendo non potremo mai svelare agli altri perché è
ignota anche a noi stessi, ed è il nostro inconscio, che pure agisce in noi a
livello profondo.
In questa poesia sono anche bellissime
le immagini utilizzate nelle tre strofe e seguendole, attraverso le espressioni
poetiche e metaforiche che le rappresentano, con un'analisi ancora più ampia di
quanto abbiamo fatto con il primo scandaglio, sembra quasi di vedere i
movimenti di questo corpo che si trova “costretto” in una forma che non ha
scelto e da cui cerca quasi di divincolarsi per assumerne una più completa (nel cammino
dell'esistenza, ogni essere umano cerca di migliorare, aspirando a realizzare
la propria maturità in un modo che sia per sé sempre più soddisfacente), salvo
mostrare la propria vitalità nel breve giro di boa dell'esistenza (sboccio come fiamma dalla brace) per
spegnersi poi nella sabbia sul fondale.
E qui riprendendo e continuando in altra forma la vita.
In quest'altro senso, ancora più
complesso e direi, ancestrale, la poesia trova il suo completamento nella
seconda indicata più sopra e che già dal titolo indirizza il lettore verso il
significato: Impermanenza,
infatti, è una qualità riferita al corpo, alla materialità dell'essere umano,
che sperimenta la sua scarsa maniera di
consistere, un'approssimazione per
difetto e s'infila di sbieco nella
storia, soffermandosi almeno un giorno a credere di essere, di stare, senza
accorgersi invece che è tutta un'illusione, che il corpo è un'apparenza.
Sembra di ripercorrere qui la ricerca schopenhaueriana della distinzione tra il fenomeno, ciò che
appare, e il noumeno, ciò che è la vera essenza, quest'ultima sempre nascosta
dal velo di Maya, cosicché l'illusione si perpetua facendoci credere vero ciò
che invece è solo mera apparenza.
Ho intenzionalmente mostrato il senso
di queste due poesie, analizzandole per prime, perché questo senso filosofico
dell'esistenza si ritrova poi sotteso in molte altre poesie nelle quali il
contenuto è di tutt'altra natura: proviamo, ad esempio, ad entrare in Simbiosi con la natura, come fa Cristina
costruendosi il suo attico in cima ai
rami di un albero, da cui vedremo anche noi avanzare il nulla e non potremo
far altro che racchiuderci dentro la nostra forma (che è umana e di albero
nello stesso tempo, perché in questo ci siamo identificati simbioticamente),
e sentire soltanto il respiro dell'anima, in attesa…
Così, ci accadrà di non essere compresi
neanche da chi, pur essendoci stato vicino tutta la vita e pur potendo
attingere ai ricordi, non se ne può servire a questo scopo, in quanto incapace
di scrutare nel nostro nucleo più profondo, ha Lo sguardo altrove, esattamente come chi, dell'albero, vede solo la
corteccia e invece ignora il suo modo di crescita, di cui solo gli anelli
interni possono dar veramente conto.
In un'altra bella poesia, Vuoto, la Bove utilizza ancora la
metafora dell'albero, ma questa volta assediato da rampicanti e piante
parassite che si nutrono della sua linfa, lasciandolo sempre più vuoto: con
questa immagine, ripercorre le sue sensazioni più intime, le sole capaci di
ridestare la sua vitalità e di riempire il vuoto dell'esistenza, altrimenti
visibile come abisso ignoto ed eterna solitudine.
Ancora riappare lo sfondo filosofico-esistenziale discusso più sopra, in una bella
poesia d'amore, Accade, nella quale
diventa possibile perfino toccare un
sogno, accendere un sorriso tra le
mani, pur non comprendendo il misterioso realizzarsi, vero, concreto, di
questo atto. Infatti è la stessa poeta a sorprendersi
per prima e ad essere contemporaneamente incredula e felice, tanto da esprimere
l'audace desiderio che si potesse
dipanare il sole (affinché permanga accesa la luce del cuore) / e che un prodigio tridimensionale / unisse due figure sul confine (passando
dalla bidimensionalità del sogno, alla materializzazione e unione concreta dei
due amanti).
In Capovolgimento,
Cristina svela tutta la sua cruda consapevolezza che la verità si nasconde ai
nostri occhi, proponendo di capovolgere la realtà per far sì che diventi quella
che dev'essere, che i concetti significhino quello
che si vuole con essi esprimere, e che anche il futuro si concretizzi nel modo
voluto. Ma è solo un desiderio, ed è irrealizzabile.
E tuttavia, la poeta persiste nella sua volontà di
mostrare la realtà dei sogni, ad esempio in un'altra bellissima lirica d'amore,
SSSHHH, dove la descrizione
dell'amato ha inizio con alcune titubanze, come se lei stessa non fosse del
tutto sicura di ciò che vede.
Eppure, al minimo accenno di possibilità di
considerare astratto l'amato, si erge
a difesa della propria visione e lo rende così reale che lo si vede mentre con le sue campiture nette / ai quattro lati / nel giardino di rose a volte sbuca / e mi attraversa. Ride.
Immagine nitidissima, quasi filmica.
Non è possibile esaminare nello
specifico tutte le poesie, né sarebbe opportuno. Il farlo toglierebbe al
lettore la responsabilità di comprenderle a suo modo, di seguire il suo intuito
e la sua logica, forte del proprio background culturale che, solo, può aiutare
a discernere il senso profondo di ogni creazione poetica.
Ma seguendo la scia
segnata da alcuni argomenti che a Cristina stanno particolarmente a cuore, in
questa come nelle sue due precedenti pubblicazioni, non si può lasciare sotto
silenzio la sua attenzione alla sorte degli altri esseri umani, siano essi
bambini, donne, o semplicemente gente comune che si lascia irretire da chi in
vari modi sa indurre falsi bisogni, sa sacrificare gli altri a falsi idoli, sa
impadronirsi della loro stessa anima: due esempi per tutte: Resto, e Velo. Quest'ultima particolarmente toccante, in quanto rivela come si
possa del tutto cancellare un essere umano e la sua identità, spegnendo il nome
sotto il manto. Qui è evidente il riferimento alla vessazione delle donne da parte
di chi dovrebbe salvaguardarne in massimo grado la dignità.
Un ultimo accenno ad
una lirica (Nulla da raccontare) in
cui Cristina ripercorre un po' la sua vita: da quando, ancora adolescente,
credeva di non avere nulla da raccontare, a quando sopraffatta dal dolore e
dalla sofferenza ancora credeva di non avere nulla da raccontare ma pregava che
le fosse risparmiata la vita per potersi prender cura dei suoi affetti
familiari, a quando scambiando versi poetici con altri cultori di poesia ancora
credeva di non avere di suo nulla da raccontare, a quando finalmente ha sperato
di poter avere tutto da raccontare a qualcuno che mostrava interesse ad
ascoltarla, dovendo invece verificare che spesso la stessa vita si presenta in
forma di metafora e il branco uccide a
colpi di sorrisi: con un guizzo delicato quanto elegante, la lirica si
conclude con un volo nel sole, cioè nella luce dell'esistenza, mettendo a
frutto l'insegnamento dantesco (Inf. III, 51) del “non ragioniam
di lor, ma guarda e passa”.
Una recensione che potesse dirsi
all'altezza del libro che sta esaminando dovrebbe poter spaziare anche su altri
aspetti che, in particolare nel campo poetico, sono ritenuti essenziali. E
cioè, lo stile, la musicalità dei versi, l'originalità dei contenuti, il
messaggio poetico, e quant'altro possa dar modo di comprendere che la lettura
che si intraprenderà sarà stimolante e soddisfacente. Su tutti questi elementi
invece non mi soffermerò, sia perché ritengo esaurita a questo punto la
pazienza di chi sta leggendo queste mie riflessioni, sia soprattutto perché
avendo recensito i due precedenti volumi di poesie della Bove, non farei altro
che confermare la peculiarità del suo modo poetico di esprimersi, anche se mi
piace sfidare il lettore a soffermarsi, da solo, nel modo e nel tempo che
ritiene più opportuni, su quegli aspetti delle poesie qui non indagati, ferma
restando la fiducia in ciò che ho all'inizio affermato e che ancora sottolineo:
Cristina Bove, nelle liriche di questa raccolta, ha reso la sua ricerca poetica
più sofisticata, ha sfruttato le sue potenzialità espressive ad alto livello,
tuttavia mantenendo la sobrietà che la caratterizza come poeta e l'efficacia
nella comunicazione delle sue emozioni più profonde, con l'umiltà che solo un grande
poeta possiede.
Carmen Lama