Il cerchio infinto
La prefazione di
Fabrizio Manini
Il
Cerchio Infinito nel suo profondo ha molte inquietudini. Già dal titolo si
evince un eterno ritorno di emozioni, sensazioni, atteggiamenti, sentimenti,
ricordi, riflessioni, pensieri e, più concretamente, di oggetti, suoni, luoghi,
persone, dettagli di visi, scorci di paesaggi, intimo del cuore. Vale a dire di
quell'insieme indescrivibile e sconfinato di cose che concorrono a
rappresentare l'universo uomo e dare vita (e significato) a quest'ultimo
nell'universo.
Le poesie
di questa nuova silloge di Renzo Montagnoli non sono ingabbiate in uno stile
classicheggiante di rima e metrica, il quale
rispecchierebbe effettivamente il fil rouge della
raccolta, vale a dire l'atavico e cadenzato ripetersi di un ordine
imperscrutabile che impera da sempre nel corso degli evi; l'autore ha preferito
un verso sciolto e libero, suggerendo in questo modo una visione apparentemente
salvifica della realtà che osserva o, almeno, una visione che lascia spazio,
all'animale uomo, per concepire ciò che fa, ciò che gli accade e ciò che è.
Naturalmente
si tratta di un inganno in quanto l'uomo è oggetto del tutto: pensa, agisce, si
sposta, ma rimane comunque all'interno della prigione senza confini che gli dà
sostentamento e che gli conferisce l'illusione di essere lui a comandare,
quando invece non può nemmeno decidere se, come, dove o quando nascere/morire,
dal momento che l'anima è immortale e si ripropone in altri corpi e in altri
tempi all'interno di un Cerchio Infinito di ricambi che nessuno ha stabilito.
Il panta rei, l'incessante divenire dove ogni cosa non è mai
uguale a se stessa, qui si arricchisce di ulteriori significati; non è più un
semplice discorso sull'esistenza di oggetti tangibili, come ad esempio il fiume
che, secondo Eraclito, non si poteva mai toccare due volte. L'elemento di
novità che l'autore introduce è la concezione fisica di spazio-tempo nel loro
significato comune di distanza, una distanza indeterminata nella quale l'uomo
mortale trova la sua espressione di esistenza, cioè quella che chiama “vita”,
in tutta la sua enigmaticità, incertezza, incompiutezza e soprattutto
impossibilità a modificarla.
La nostra
caducità nonché l'insignificanza di fronte al tutto sono una costante nella nostra
esistenza; la maturità di quest'opera risiede nel fatto che la sete di
conoscenza, pur non appagata per oggettiva impossibilità discente dell'uomo,
non sfocia né in furia né follia, ma in una tranquillità in apparenza
rassegnata e allo stesso tempo in una profondamente inquieta accettazione di
sopravvivenza dentro un tempo e uno spazio privi di ogni e qualsiasi sicurezza.
L'autore
nel comporre questa silloge è riuscito ad attuare un progetto ambizioso.
Parlando con semplicità di cose altrettanto semplici, trasmette al lettore una
sorta di consenso per ciò che vede e che percepisce; ammette la realtà, forse
senza approvarla, accoglie l'avvicendamento delle vite, forse senza rimpianti,
acconsente alle leggi superiori, forse senza neanche tentare di capire, perché
ha già intuito che è stupido il pensare di poterlo fare. È esattamente per
questo motivo che la quintessenza che traspare da queste pagine è sconcertante;
è una pienezza di ragionamento e di capacità di sintesi che difficilmente
trovano uguali.
La
salvezza non è nel cambiare il proprio destino, ma nell'accettarlo senza la
docilità dello sconfitto.